C’è un azzurro che non si può descrivere, solo respirare.
A Filicudi è ovunque: nel cielo che si abbassa a toccare il mare, nelle persiane scolorite, nei pensieri che si allentano piano, come nodi sciolti dalla luce.
Appena arrivata, ho capito che non mi sarei solo fermata.
Mi sarei lasciata andare.
Filicudi non ha fretta.
Non accoglie, semplicemente è.
Un’isola che non ti cerca, ma se la trovi, ti insegna a rallentare.
Sono arrivata dal mare, in barca a vela, insieme a quattro amiche speciali.
Il vento tra i capelli, l’acqua che cantava sotto lo scafo.
Poi abbiamo toccato terra.
Ma le immagini che ho scelto non raccontano le nostre confidenze, né le risate leggere, né la Silent Disco improvvisata in una piazzetta che sembrava il palcoscenico perfetto per una gioia senza testimoni.
Questi scatti raccontano un’altra parte del viaggio.
Più intima, più silenziosa.
Raccontano la quiete che, immagino, avvolge l’isola quando i turisti se ne vanno.
E restano solo il suono del mare e il fruscio delle piante che resistono al vento.
Una quiete che non è assenza, ma presenza sottile.
Una forma di ascolto.
Anche in compagnia, sento spesso il bisogno di estraniarmi.
Non per allontanarmi dagli altri, ma per avvicinarmi a ciò che mi circonda.
Lascio parlare il luogo. Cerco di farmi da parte.
Siamo state il tempo di una marinatura frettolosa, troppo poco per assorbire e capire.
Ma anche una goccia può restare impressa, se cade nel momento giusto.
Così mi concentro. Cammino, osservo, respiro.
Mi lascio attraversare. E pian piano, Filicudi inizia a parlarmi:
con il canto lontano di una barca al largo,
con l’odore salmastro che entra nei vestiti,
con la tenacia dei fichi d’India che si aggrappano alle rocce nere come se da lì non volessero più andare via.
Ogni scorcio sembra portare con sé un frammento di storia.
Forse non la vera storia dell’isola.
Ma quella che il mio sguardo ha saputo costruire.
E allora fotografo.
Non per conservare scatti, ma per ricordare meglio.
Perché in quell’istante in cui premo il pulsante, qualcosa si allinea: la luce, il respiro, la presenza.
E poi rimane.
Dentro la macchina.
Dentro di me.
Filicudi non è un’isola che si conquista.
È un’isola che si accoglie.
E che, in cambio, ti sussurra qualcosa.
Se stai ferma.
Se ascolti davvero.








